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era giugno
Pubblicato da Piero il 26/10/2006 alle 15:50:02, in Diario di ValleVegan, letto 2539 volte
Era giugno. Il grano ormai maturo sembrava un mare dorato e le spighe danzavano cullate dal vento come bionde divinità della terra. Le nuvole si muovevano veloci stagliando perfettamente il loro candore purissimo contro il cielo di un azzurro quasi irreale. L’aria era profumata e dappertutto si sentiva l’euforia della natura: il canto allegro dei merli e dei fringuelli, il volo bizzarro delle farfalle, il ronzare delle api, il dolce odore dei fiori… La maggior parte delle persone ignora tutto questo ma ci sono creature sensibili che possono percepirlo anche se lontane dalla festa di colori e profumi d’inizio estate. Una brezza leggera gli accarezzò le orecchie e gli entrò nelle narici regalandogli un po’ di primavera, sentì il profumo delle fragole di bosco, dei trifogli teneri, dei petali delle margherite… sarebbe stato bello calpestare il terreno o riposarsi sull’erba fresca, sarebbe stato bello correre e per una volta scaldarsi alla luce diretta del sole. E invece era prigioniero in una gabbia di cemento e sbarre, costretto a sbirciare il mondo esterno e il succedersi delle stagioni da una fessura della sua angusta prigione. E così da quando era nato, da quando a pochi giorni di vita era stato strappato al calore e alla tenerezza di sua madre per essere rinchiuso e legato, senza poter muoversi senza poter far nulla se non attendere la fine. Ormai erano passati più di due anni e quella che si apprestava a nascere sarebbe stata la terza estate della sua vita. Questo periodo lunghissimo l’aveva passato in completa solitudine,spezzata a volte dalla presenza degli uomini che gli cambiavano l’acqua o gli riempivano la mangiatoia. Ricordò che quando era piccolo cercò conforto in quelle persone perché era disperato, perché come ogni neonato aveva bisogno di amore. Ma ciò che ricevette non fu amore né tenerezza né niente di simile. Tutt’altro… Nonostante ciò imparò ad apprezzare la vita; ogni profumo, ogni suono che passava attraverso la fessura della sua prigione lo consolava. Forse le altre mucche e gli altri vitelli che erano con lui nel capannone, di cui purtroppo percepiva solo la presenza perché non poteva vederli, non avevano alcuna fessura da cui guardare uno scorcio del mondo. Forse non erano così fortunati. L’unica cosa che veramente gli mancava era il sole. Quanto gli sarebbe piaciuto scaldarsi al suo calore vitale o immergere lo sguardo nella sua luce forte e portatrice di vita. Certo qualche raggio entrava nella sua cella, ma non era che la fievole luce del tramonto, una luce morente e fredda. Guardò fuori: oltre il muro grigio non molto alto si poteva scorgere un prato che ora era al massimo della sua bellezza,mostrando tutte le tonalità di verde, ed anche un pezzettino di cielo. Quel giorno era sereno; l’aria era tiepida e piena di profumi. Si sentì felice e chiuse gli occhi, immaginando di brucare l’erba di quel prato sotto quel cielo perfetto. Ma all’improvviso tutto si dileguò in una nube nera. ” E’ questo qui” … queste tre parole portarono una tempesta nella sua mente, erano metalliche e fredde più dell’inverno. Riaprendo gli occhi vide due uomini di fronte alla sua gabbia che lo guardavano. Nessuno gli aveva mai prestato così tanta attenzione. Aprirono il suo box e, dopo più di due anni, lo sciolsero dalla catena, che ormai credeva parte di lui. Uno dei due uomini fece dei versi strani e gli picchiò il bastone sulla schiena. Uscì dalla gabbia pensando che sarebbe bastato chiedere senza agitarsi tanto, e sorrise dentro per la stupidità di queste strane creature che si credono padroni di tutto e di tutti , che non sanno che prima o poi saranno soli di fronte alla morte inesorabile che non ha riguardi. Non ricordava com’era fatto il capannone: c’era un lungo corridoio affiancato da un centinaio di box nei quali erano rinchiusi altrettanti animali. Alla fine del corridoio c’era un grosso cancello, oltre il quale adesso c’era un piccolo camion sul quale sarebbe dovuto salire. Sapeva benissimo dove portava, forse gliel’aveva detto il vento o forse lo sapeva e basta, ma non era importante. Non ebbe paura e ignorando i versi degli uomini e le bastonate, si diresse verso l’uscita, verso la luce. Ecco la luce finalmente, si fermò un attimo prima di salire sul camion. Alzò gli occhi verso il sole, abbassò le orecchie e respirò forte come se volesse catturare il calore o la luce stessa con le narici. Ringraziò la vita per quell’ultimo dono meraviglioso. Quel giorno poteva piovere o potevano portarlo via dopo il tramonto. Ma era stato fortunato. Sentì la carezza vitale della stella ed un brivido caldo gli pervase il corpo. Non era mai stato così felice. Socchiuse gli occhi e assaporò quel momento con tutto se stesso. Ma durò poco, una bastonata lo risvegliò dal suo sogno e salì sul camion, lì dentro era buio. Chiusero i portali dietro di lui e non fece in tempo a voltarsi per salutare il sole un’ultima volta. Ma non disperò per questo. Conservava ancora il calore dentro di lui e la luce nei suoi ricordi. E questo gli bastava. Ma a voi non interessa la sua storia. A voi, che ingurgitate sofferenza e dolore, che siete complici ingordi di un massacro inutile, che riempite i vostri ventri con le membra degli innocenti, basta sapere questo di lui: bistecca di bovino adulto nato il 15/04/02 macellato il 20/06/04. BUON APPETITO. Dedicato a Torotello Susanna