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Cieli silenziosi. Reportage sul bracconaggio in Europa
Pubblicato da Piero il 05/03/2011 alle 10:32:27, in anti caccia, letto 2692 volte
Inseriamo qui il reportage di Jonathan Franzen, uno dei più importanti scrittori contemporanei statunitensi, pubblicato su "The New Yorker". Franzen ha raccolto con noi dal vivo, sul campo contro i bracconieri, tutte le informazioni del suo testo. Ha seguito noi volontari fino a Cipro dove, leggerete, abbiamo rischiato letteralmente la pelle. Questa è la traduzione poi diffusa su "Internazionale".




CIELI SILENZIOSI
di Jonathan Franzen, The New Yorker, Stati Uniti
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Ogni anno migliaia di uccelli migratori che transitano nel bacino del Mediterraneo vengono uccisi da cacciatori e bracconieri. In Italia, a Cipro e a Malta si consuma una carneficina che sta svuotando i cieli europei.




Negli ultimi anni, l’angolo sudorientale della Repubblica di Cipro ha subìto un forte sviluppo edilizio grazie al turismo. Grandi alberghi di media altezza, specializzati in pacchetti vacanza per tedeschi e russi, si affacciano su spiagge occupate da file ordinate di lettini e ombrelloni, e il Mediterraneo non potrebbe essere più azzurro di così. Si può trascorrere una settimana molto piacevole da queste parti, guidando su strade moderne e bevendo la buona birra locale, senza sospettare che in questa regione è in corso il più grande sterminio di uccelli canori di tutta l’Unione europea.

L’ultimo giorno di aprile del 2010 vado nella ricca cittadina turistica di Protaras per incontrare quattro membri di un’organizzazione tedesca per la protezione degli uccelli, il Committee against bird slaughter (Cabs), che organizza campi di volontariato stagionali nei paesi del Mediterraneo. Dato che a Cipro l’alta stagione per la cattura degli uccelli canori è l’autunno, quando i migratori diretti a sud hanno accumulato un bel po’ di grasso dopo un’estate trascorsa a banchettare al nord, sono preoccupato di non riuscire a vedere nessun bracconiere in azione, e invece il primo frutteto in cui entriamo, di fianco a una strada trafficata, è pieno di bastoncini di vischio: stecchi di settanta centimetri, rivestiti di una sostanza collosa ricavata dalle prugne, e disposti ad arte, come invitanti posatoi, tra i rami degli alberi bassi. Gli attivisti del Cabs, guidati da un giovane italiano magro e barbuto di nome Andrea Rutigliano, si sparpagliano nel frutteto, tirano giù i bastoncini, li rigirano nella terra per togliere la colla e li spezzano in due. Su tutti i bastoncini c’è attaccata qualche piuma. Su un albero di limoni troviamo un maschio di balia dal collare appeso a testa in giù. Sembra un frutto. Ha la coda, le zampe e le ali bianche e nere immobilizzate dalla colla. Mentre l’animale si contorce e gira invano la testa, Rutigliano lo filma da diverse angolazioni, e un volontario italiano più anziano, Dino Mensi, gli scatta alcune foto. “Le foto sono importanti”, dice Alex Heyd, un tedesco dall’aria giudiziosa, segretario generale dell’organizzazione, “perché la guerra si vince sui giornali, non sul campo”.

I due italiani si mettono al lavoro sotto il sole rovente per liberare la balia dal collare, scollando delicatamente le penne una per una, spruzzando piccole quantità di sapone diluito per ammorbidire la colla che resiste, e trasalendo ogni volta che una penna va perduta. Poi Rutigliano rimuove con cura la colla dalle zampine dell’uccello. “Bisogna togliere ogni minima traccia di vischio”, dice. “Il primo anno che facevo questo lavoro ne ho lasciato un po’ sulla zampa di un uccello, e l’ho visto volar via e restare di nuovo attaccato. Mi è toccato arrampicarmi sull’albero”. Rutigliano mi mette la balia dal collare nelle mani, io le apro e l’uccello vola via nel frutteto, riprendendo il suo viaggio verso nord.

Siamo circondati dal rumore del traffico, oltre che da campi di meloni e da complessi residenziali e alberghieri. David Conlin, un veterano dell’esercito britannico, butta tra le erbacce un fascio di bastoncini ormai inoffensivi e dice: “È pazzesco: dovunque ti fermi trovi questi affari”. Guardo Rutigliano e Mensi liberare un altro uccello, un luì verde, una graziosa creaturina con la gola gialla. Vedere così da vicino una specie che di solito richiede complicate manovre con il binocolo per essere osservata mi suscita un certo disagio. Un vero e proprio senso di frustrazione. Mi vien voglia di dire, al luì verde, quello che diceva san Francesco d’Assisi di fronte a un animale selvatico catturato: “Perché ti sei fatto acchiappare?”.

Mentre usciamo dal frutteto, Rutigliano suggerisce a Heyd di indossare la maglietta del Cabs alla rovescia, in modo che la gente ci scambi per normali turisti a passeggio. A Cipro è consentito entrare in qualsiasi terreno privato non recintato, e l’uccellagione è reato penale dal 1974, eppure mi sembra di compiere un’azione violenta e forse anche pericolosa. La squadra del Cabs, in tenuta nera e grigioverde, somiglia più a un commando che a un gruppo di turisti. Una donna del posto, forse la proprietaria del frutteto, ci guarda impassibile mentre ci inoltriamo nella campagna lungo una strada di terra battuta. Poi veniamo sorpassati da un uomo a bordo di un pick-up, e la squadra, sospettando che stia andando a tirar giù le sue trappole, lo segue di buon passo.

Nel cortile dietro la casa di quell’uomo troviamo due paia di tubi di metallo lunghi sei metri, appoggiati in parallelo a due sedie da giardino: una piccola fabbrica di bastoncini di vischio, di quelle che possono fruttare buoni guadagni ai ciprioti, soprattutto agli anziani che conoscono il mestiere. “Li costruisce e ne tiene qualcuno per sé”, dice Rutigliano. Lui e gli altri gironzolano sfacciatamente intorno al pollaio e alle gabbie dei conigli, staccando qualche bastoncino e posandolo sui tubi. Poi entriamo in un altro giardino, salendo su per una collina e poi scendendo di nuovo, in un frutteto attraversato da tubi d’irrigazione e pieno di uccelli intrappolati. “Questo giardino è un disastro!”, dice Mensi, che parla solo italiano.

Una capinera femmina, con la coda quasi completamente strappata, è attaccata non solo per le zampe e le ali, ma anche per il becco, che si spalanca appena Rutigliano lo scolla; l’uccello comincia a strillare furiosamente. Dopo averlo liberato, Rutigliano gli spruzza un po’ d’acqua dentro il becco e lo posa a terra. La capinera cade in avanti e si dibatte pietosamente, cacciando la testa nel fango. “È rimasta appesa così a lungo che si è stirata i muscoli delle zampe”, dice Rutigliano. “Stanotte la terremo con noi, e domani sarà in grado di volare”.
“Anche senza coda?”, gli chiedo.
“Certo”.
Raccoglie la capinera e la infila in una tasca esterna dello zaino.

La capinera è uno dei silvidi più comuni d’Europa, oltre che un piatto tradizionale di Cipro, dove è nota con il nome di ambelopoulia. È la vittima principale degli uccellatori ciprioti, ma la cattura accidentale di altre specie raggiunge proporzioni enormi: uccelli rari come le averle, altri silvidi, e specie più grandi come i cuculi e i rigogoli, perfino piccoli gufi e falchi. Nel secondo frutteto, attaccati ai bastoncini troviamo cinque balie dal collare, un passero e un pigliamosche (un tempo molto diffuso, oggi sempre più raro in quasi tutta l’Europa settentrionale), insieme ad altre tre capinere. Dopo averli liberati, gli uomini della squadra discutono animatamente sul numero di bastoncini trovati sul posto, e decidono per cinquantanove.

Addentrandoci ancora un po’ nell’entroterra, in un boschetto secco e pieno d’erbacce con vista sul mare azzurro e sugli archi dorati di un nuovo McDonald’s, troviamo un bastoncino con un uccello appeso, ancora vivo. È un usignolo maggiore, una specie dal piumaggio grigio che in passato ho visto solo una volta. È completamente invischiato e ha un’ala rotta. “La frattura è tra due ossa, non si può rimarginare”, dice Rutigliano palpando l’articolazione sotto le piume. “Purtroppo dobbiamo ucciderlo”.

Il bastoncino che ha intrappolato l’usignolo maggiore dev’essere sfuggito all’uccellatore che stamattina è venuto a recuperare gli altri. Mentre Heyd e Conlin discutono se domani sia il caso di alzarsi prima dell’alba per “tendere un’imboscata” all’uccellatore, Rutigliano accarezza la testa dell’usignolo. “È così bello”, dice come un bambino. “Non posso ucciderlo”.
“Che facciamo?”, dice Heyd.
“Magari diamogli la possibilità di saltellare un po’ in giro e morire per conto suo”.
“Mi sembra un’ipotesi improbabile”, dice Heyd.

Rutigliano poggia a terra l’usignolo e lo guarda zampettare, più come un topo che come un uccello, fin sotto un piccolo cespuglio spinoso. “Magari tra qualche ora camminerà meglio”, dice, poco realisticamente.
“Vuoi lasciare a me la decisione?”, dice Heyd.
Rutigliano, senza rispondere, si avvia su per la collina ed esce dalla visuale.
“Dov’è andato?”, mi chiede Heyd.

Gli indico il cespuglio. Heyd ci infila dentro le mani da due lati, cattura l’uccello, lo tira su con delicatezza e alza lo sguardo verso me e Conlin. “Siamo d’accordo?”, chiede in tedesco. Io annuisco, e Heyd, con una torsione del polso, spezza il collo all’usignolo. Il sole ha occupato tutto il cielo, ammazzando l’azzurro con il suo biancore. Mentre perlustriamo il boschetto in cerca di un punto dove tendere l’agguato, non sappiamo già più da quante ore siamo in cammino. Ogni volta che vediamo un cipriota in un campo o a bordo di un furgone, dobbiamo abbassarci e tornare indietro tra le pietre e i cardi che bucano i calzoni. Qualcuno potrebbe avvisare il proprietario del terreno dove si trovano le trappole. Non ci sono mine su questa collina, la posta in gioco non è altro che la vita di qualche uccello, eppure la torrida immobilità evoca un’atmosfera minacciosa da tempo di guerra.

L’uccellagione con i bastoncini di vischio è una tradizione diffusa a Cipro almeno dal cinquecento. Gli uccelli migratori rappresentavano un’importante fonte stagionale di proteine nelle campagne, e i ciprioti anziani ricordano che le madri li mandavano nell’orto con il compito di catturare qualcosa per la cena. Negli ultimi decenni l’ambelopoulia è diventata popolare tra i ciprioti benestanti e urbanizzati come una specie di prelibatezza nostalgica: un barattolo di uccelli in salamoia può diventare un regalo per un amico, un vassoio di uccelli fritti si può ordinare al ristorante per un’occasione speciale. A metà degli anni novanta, vent’anni dopo che il paese aveva messo al bando tutte le forme di uccellagione, venivano uccisi dieci milioni di uccelli canori all’anno. Per andare incontro alle richieste dei ristoranti, l’uccellagione tradizionale con i bastoncini di vischio era stata incrementata dall’uso di reti su vasta scala, e il governo cipriota, che stava cercando di darsi una regolata per essere ammesso nell’Unione europea, usò la mano pesante con gli uccellatori. Nel 2006 il numero di volatili catturati in un anno era sceso a circa un milione.

Negli ultimi anni, tuttavia, da quando Cipro si è comodamente sistemata all’interno dell’Unione, nei ristoranti sono ricomparsi i cartelli che reclamizzano l’illegale ambelopoulia, e le aree infestate dalle trappole sono in aumento. Nel 2010 la lobby della caccia cipriota, che rappresenta i cinquantamila cacciatori della repubblica, ha proposto due disegni di legge per indebolire la normativa antibracconaggio. Il primo ridurrebbe l’uso dei bastoncini di vischio a reato minore, il secondo depenalizzerebbe l’impiego di richiami elettronici per uccelli.

Dai sondaggi emerge che la maggior parte dei ciprioti, pur disapprovando l’uccellagione, non la considera una questione importante e molti amano mangiare l’ambelopoulia. Quando il Game fund (che riunisce i guardacaccia locali) ha organizzato incursioni nei ristoranti dove si servivano gli uccellini, le cronache dei giornali sono state molto ostili, a cominciare dalla storia di una donna incinta che si è vista strappare di mano il piatto al ristorante.

“Qui il cibo è sacro”, mi dice Martin Hellicar, il coordinatore delle campagne di BirdLife Cipro, un’organizzazione locale più contraria del Cabs a questo tipo di provocazioni. “Non credo che qualcuno verrà mai condannato per aver mangiato l’ambelopoulia”.

Io e Hellicar abbiamo trascorso una giornata a visitare i siti di trappolaggio nell’angolo sudorientale del paese. Ogni piccolo uliveto può essere usato per piazzare le reti, ma i siti più grandi si trovano nelle piantagioni di acacie, una specie esotica che non ci sarebbe motivo di irrigare se non fosse usata dagli uccellatori. Queste piantagioni sono dappertutto. Lunghe passatoie di moquette dozzinale corrono per terra, tra le file di acacie; centinaia di metri di rete invisibile vengono tesi tra pali solitamente piantati dentro vecchi copertoni riempiti di cemento; poi, di notte, si attivano a tutto volume i richiami che spingono i migratori a venire a riposarsi tra le acacie rigogliose. Alle prime luci dell’alba, i bracconieri tirano manciate di ghiaia per spaventare gli uccelli e farli volare verso le reti (un segno rivelatore della presenza di trappole è un mucchio di ghiaia abbandonato sul ciglio della strada). Poiché i bracconieri credono che liberare le prede porti sfortuna al sito, gli uccelli non commerciabili vengono fatti a pezzi e abbandonati a terra, oppure lasciati a morire nelle reti. Quelli commerciabili possono rendere fino a cinque euro l’uno, e un buon sito può fruttare anche più di mille uccelli al giorno.

A Cipro la zona peggiore per il bracconaggio è la base militare britannica di capo Pyla. Gli inglesi saranno anche il popolo europeo che ama di più gli uccelli, ma la base, che affitta i suoi poligoni di tiro agli agricoltori ciprioti, si trova in una posizione diplomatica delicata. Dopo una recente operazione dell’esercito britannico per far rispettare la legge, alcuni ciprioti infuriati hanno staccato ventidue cartelli della Sovereign base area. Fuori dalla base, la legge è poco rispettata, per motivi logistici e politici. I bracconieri hanno vedette e guardie notturne, e hanno imparato a costruire piccoli capanni nei siti di trappolaggio. Gli agenti del Game fund, infatti, sono obbligati a richiedere un mandato per perquisire qualunque “domicilio”, e nel frattempo i bracconieri hanno il tempo di tirare giù le reti e nascondere i dispositivi elettronici. Dato che alcuni bracconieri sono ormai dei veri e propri criminali, gli agenti hanno anche paura di aggressioni. “Il problema più grave è che a Cipro nessuno, neppure i politici, dichiara che mangiare l’ambelopoulia è sbagliato”, mi dice il direttore del Game fund, Pantelis Hadjigerou. Anzi, il detentore del primato per il maggior numero di ambelopoulia consumate in un solo pasto (cinquantaquattro) è un popolare uomo politico della regione settentrionale del paese.

“L’ideale sarebbe trovare un personaggio famoso disposto a dichiarare: ‘Io non mangio l’ambelopoulia, lo considero sbagliato’”, dice la direttrice di BirdLife Cipro, Claire Papazoglou. “Ma qui vige una specie di patto per cui le cose brutte che succedono devono rimanere sull’isola, perché non possiamo fare brutta figura davanti al resto del mondo”.

“Prima che Cipro entrasse nell’Unione europea”, mi ha detto Hellicar, “gli uccellatori avevano assicurato che avrebbero rallentato un po’. Oggi, per i ragazzi di diciotto o diciannove anni, il bracconaggio è una forma di machismo patriottico. Un simbolo della resistenza al Grande Fratello Ue”.

A me, però, la cosa che sembra davvero orwelliana è la politica cipriota. Sono passati trentasei anni da quando la Turchia ha occupato il nord dell’isola, e da allora il sud di etnia greca ha raggiunto un notevole benessere, eppure i notiziari nazionali sono ancora dominati, sette giorni su sette, dal Problema di Cipro. “Ogni altra questione passa in secondo piano, tutto il resto è irrilevante”, mi spiega l’antropologo sociale cipriota Yiannis Papadakis. “Loro dicono: ‘Come osate denunciarci alla corte europea per questa stupidaggine degli uccelli? Noi denunciamo la Turchia!’. Non c’è mai stato un dibattito serio sull’ingresso nell’Unione europea: era semplicemente il mezzo con cui avremmo risolto il Problema di Cipro”. Il più importante strumento di tutela della fauna aviaria dell’Unione europea è la storica direttiva del 1979 che impone agli stati membri di proteggere tutte le specie europee e di salvaguardarne l’habitat. Da quando è entrata a far parte dell’Unione, nel 2004, Cipro ha ricevuto numerosi richiami della Commissione europea per le violazioni della direttiva, ma finora ha sempre evitato sentenze e multe. La commissione preferisce non interferire con l’applicazione delle leggi all’interno di uno stato membro, se sulla carta la legislazione ambientale di quello stato risulta in linea con la direttiva.

Il partito al governo, che si definisce comunista, appoggia con entusiasmo l’edilizia privata. Il ministero del turismo sta sollecitando progetti per la realizzazione di quattordici nuovi complessi residenziali con campi da golf (l’isola attualmente ne ha tre), anche se le riserve di acqua potabile del paese sono molto limitate. Chiunque possieda un terreno raggiungibile da una strada può edificarlo. Di conseguenza la campagna è molto frammentata. Ho visitato quattro delle riserve naturali più importanti della zona sudorientale, in teoria sottoposte alla speciale protezione della normativa europea, e le ho trovate tutte in condizioni deprimenti.

Il grande lago stagionale di Paralimni, per esempio, vicino alla zona che ho perlustrato con i membri del Cabs, è una rumorosa conca di polvere occupata da un poligono di tiro abusivo e da una pista di motocross abusiva, cosparsa di bossoli di cartucce e disseminata di macerie, elettrodomestici in disuso e rifiuti domestici.

Eppure gli uccelli continuano a venire a Cipro: non hanno scelta. Più tardi, tornando in paese sotto un cielo un po’ meno bianco, la pattuglia del Cabs si ferma ad ammirare uno zigolo testanera, un gioiello color oro, nero e castano, che canta sopra un cespuglio. Per un momento la tensione cala, e torniamo a essere semplici birdwatcher che esclamano ciascuno nella propria lingua.

“Ah, che bello!”.
“Fantastico!”.
“Unglaublich schön!”.

Prima di tornarcene a casa, Rutigliano vuole fare un’ultima tappa in un frutteto dove l’anno scorso un volontario del Cabs è stato aggredito dagli uccellatori. Mentre la nostra auto a noleggio svolta per lasciare la strada principale e imboccare una pista sterrata, ci viene incontro un pick-up rosso a quattro posti, e il conducente fa il gesto di tagliarci la gola. Dopo che il pick-up è uscito sulla strada, due passeggeri si sporgono fuori dai finestrini e ci mostrano il dito medio.

Heyd, il tedesco giudizioso, vuole fare dietrofront e andarsene subito, ma gli altri obiettano che il pick-up sicuramente non tornerà indietro. Proseguiamo fino al frutteto, dove le trappole hanno catturato quattro balie dal collare e un luì verde che non riesce ad alzarsi in volo. Rutigliano me lo consegna, dicendomi di metterlo nello zaino. Una volta distrutti tutti i bastoncini di vischio, Heyd, in tono più nervoso, ci esorta di nuovo ad andarcene. Ma un po’ più lontano c’è un altro boschetto che i due italiani vogliono perlustrare. “Non ho brutti presentimenti”, dice Rutigliano.

“Noi inglesi abbiamo un modo di dire: ‘Non sfidare la sorte’”, dice Conlin. In quel momento, una cinquantina di metri più giù, vediamo il pick-up rosso arrivare a tutta velocità e fermarsi sbandando. Tre uomini saltano giù e si mettono a correre verso di noi, raccogliendo pietre grosse come palle da baseball e tirandocele addosso. Schivare quei sassi volanti non è facile come pensavo e Conlin e Heyd vengono colpiti.

Rutigliano riprende la scena, Mensi scatta fotografie, e si sentono parecchie urla confuse: “Continua a riprendere, continua a riprendere!”, “Chiama la polizia!”, “Come cavolo è il numero?”. Pensando al luì verde dentro il mio zaino, e poco entusiasta di venire scambiato per uno del Cabs, seguo Heyd che torna indietro su per la salita. Da una distanza non proprio di sicurezza ci fermiamo a guardare due uomini che aggrediscono Mensi, cercando di strappargli lo zaino dalle spalle e la macchina fotografica dalle mani. I due, sulla trentina e molto abbronzati, gridano: “Che state facendo? Cosa fotografate?”. Mensi, con un gemito terribile, i muscoli gonfi per lo sforzo, si stringe la macchina fotografica contro l’addome. Gli uomini lo sollevano, lo buttano a terra e gli si scagliano addosso. Non vedo Rutigliano, ma più tardi scoprirò che lo hanno colpito in faccia, buttato a terra e preso a calci su gambe e costole.

La sua telecamera è stata fracassata contro una roccia e scagliata in testa a Mensi. Conlin se ne sta fermo in mezzo alla rissa con un formidabile portamento militare, stringendo in mano due cellulari con cui cerca di chiamare la polizia. Più tardi mi racconterà di aver minacciato gli aggressori di trascinarli in tutti i tribunali del paese, se solo lo avessero toccato.
Heyd intanto continua a indietreggiare, e questa mi sembra una buona idea. Quando lo vedo guardarsi indietro e impallidire, anch’io vengo preso dal panico.

La corsa di chi fugge da un pericolo è diversa da ogni altro tipo di corsa: è difficile guardare dove si mettono i piedi. Salto un muretto di pietra e attraverso di corsa un campo pieno di rovi, finisco dentro un fosso e mi ferisco al mento con un pezzo di recinzione metallica, e a quel punto decido che ne ho abbastanza. Sono preoccupato per il luì che porto nello zaino. Vedo Heyd che, continuando a correre in salita, attraversa un grande giardino, dice qualcosa a un uomo di mezza età e poi, spaventato, riprende a correre. Vado verso il padrone del giardino e cerco di spiegargli la situazione, ma l’uomo parla solo greco. Con un’espressione preoccupata ma anche diffidente va a chiamare la figlia, la quale riesce a dirmi, in inglese, che sono capitato nel giardino del direttore della sezione locale di Greenpea­ce. Mi offre un bicchier d’acqua e due piatti di biscotti e racconta la mia storia al padre, che risponde con una sola parola rabbiosa. “Barbari!”, traduce la figlia.

Quando torno giù alla macchina, sotto un cielo nuvoloso che minaccia pioggia, trovo Mensi che si tasta le costole e tampona i tagli e le abrasioni che gli coprono le braccia. Gli hanno rubato sia la macchina fotografica sia lo zaino. Conlin mi mostra la videocamera fracassata e Rutigliano, che ha perso gli occhiali e zoppica, mi confessa con fanatismo non privo di concretezza: “Speravo che succedesse un fatto del genere. Ma non così grave”.

Alcuni volontari del cabs, arrivati nel frattempo, gironzolano lì intorno con aria cupa. Nella loro auto trovo un cartone di vino vuoto, in cui, mentre arriva la polizia, riesco a trasferire il luì verde. Ha un’aria mogia ma non più malconcia di prima. Sarei più orgoglioso di averlo salvato, se proprio in quel momento non trovassi sul cellulare il messaggio di un amico cipriota, che conferma il nostro appuntamento clandestino per mangiare l’ambelopoulia la sera successiva. Mi stavo quasi convincendo di poter semplicemente osservare come un bravo giornalista, senza dover assaggiare neppure un uccellino. Ma non è affatto detto che ci riu­scirò.

Ogni primavera circa cinque miliardi di uccelli si spostano in massa dall’Africa per andare a riprodursi in Eurasia, e ogni anno fino a un miliardo di questi uccelli viene deliberatamente ucciso dagli esseri umani, in particolare lungo le rotte migratorie del Mediterraneo. Mentre le acque di quel mare vengono svuotate da pescherecci che usano sonar e reti ad alto rendimento, i suoi cieli vengono ripuliti grazie all’efficacissima tecnologia dei richiami. Dalla fine degli anni settanta, come risultato della direttiva europea e di varie altre convenzioni di salvaguardia, la situazione di alcune specie più minacciate è un po’ migliorata. Ma oggi i cacciatori del Mediterraneo stanno approfittando di questo piccolo miglioramento per rinnovare l’offensiva. Cipro ha sperimentato di recente l’apertura della caccia primaverile a quaglie e tortore. Nell’aprile del 2010 Malta ha aperto a sua volta la stagione della caccia primaverile. A maggio dello stesso anno il parlamento italiano ha approvato una legge che allunga la stagione venatoria autunnale. Gli europei possono anche considerarsi dei campioni di illuminismo ambientale – di certo si comportano come se lo fossero, facendo la predica agli Stati Uniti e alla Cina sulle emissioni di gas serra – ma negli ultimi dieci anni le popolazioni di molti uccelli residenti e migratori si sono ridotte in modo allarmante in tutta Europa. Non occorre essere un birdwatcher per avvertire la mancanza del richiamo del cuculo, dei volteggi delle pavoncelle sopra i campi, del canto dello strillozzo dai pali della luce. Un mondo di uccelli già compromesso dalla perdita di habitat e dall’agricoltura intensiva viene spinto ancora più in fretta verso l’estinzione dai cacciatori. La primavera, nel vecchio continente, ha buone probabilità di diventare silenziosa molto prima che nel nuovo mondo.

La Repubblica di Malta, che consiste di alcuni blocchi di calcare densamente popolati con una superficie complessiva di appena 316 chilometri quadrati, è il posto più ferocemente ostile agli uccelli di tutta Europa. A Malta ufficialmente vivono dodicimila cacciatori (circa il tre per cento della popolazione), gran parte dei quali considera un proprio diritto sparare a qualunque uccello migratore che abbia la sfortuna di passare sopra Malta, a prescindere dalla stagione e dallo status di protezione della specie. I maltesi sparano a gruccioni, upupe, rigogoli, berte, cicogne e aironi. Si appostano davanti alla recinzione dell’aeroporto internazionale e si esercitano nel tiro al bersaglio con le rondini. Sparano dai tetti delle case di città e dal ciglio di strade trafficate. Si appostano dentro bunker costruiti l’uno accanto all’altro sul fianco delle colline e falciano stormi di falchi migratori. Sparano a rapaci di specie minacciate, come l’aquila anatraia minore e l’albanella pallida, che i governi di paesi più settentrionali proteggono a prezzo di milioni di euro. Le prede rare vengono impagliate e aggiunte alle collezioni di trofei, le altre vengono abbandonate sul terreno, oppure sepolte sotto mucchi di pietre per non lasciare prove in giro. In Italia, quando vedono un migratore a cui manca un pezzo d’ala o di coda, i birdwatcher parlano di “piumaggio maltese”.

Negli anni novanta, prima che Malta entrasse nell’Unione europea, il governo cominciò ad applicare una legge già in vigore che vietava l’uccisione delle specie non cacciabili, e la causa maltese fu abbracciata anche da associazioni di paesi lontani come la Royal society for the protection of birds del Regno Unito, che mandò volontari per assicurarsi che la legge fosse rispettata. Il risultato, come dice un volontario britannico con cui ho parlato, è che “la situazione è passata da orribile a semplicemente pessima”. Ma i cacciatori maltesi sostengono che il paese è troppo piccolo perché l’attività venatoria possa intaccare in modo significativo l’avifauna europea e mal sopportano quella che considerano un’interferenza straniera nella loro “tradizione”. L’associazione nazionale dei cacciatori, la Federazzjoni kaċċaturi nassaba konservazzjonisti (Fknk), ha scritto nella sua newsletter dell’aprile 2008: “L’Fknk ritiene che il lavoro di polizia debba essere svolto solo da poliziotti maltesi, e non da arroganti estremisti stranieri che accampano diritti su Malta solo perché fa parte dell’Unione europea”.

Quando, nel 2006, l’associazione locale BirdLife Malta assunse un cittadino turco, Tolga Temuge, un ex direttore delle campagne di Greenpeace, per lanciare un’aggressiva campagna contro la caccia illegale, i cacciatori evocarono l’assedio turco del 1565 e reagirono con furia esplosiva. Il segretario generale dell’Fknk, Lino Farugia, inveì contro “il turco” e i suoi “lacchè maltesi”, e alle invettive seguì una serie di minacce e aggressioni contro le proprietà e il personale di BirdLife. Un membro dell’associazione ricevette uno sparo in faccia, le auto di tre volontari furono date alle fiamme e migliaia di giovani alberi furono sradicati in una zona di riforestazione che compete con l’unica altra foresta dell’isola principale, controllata dai cacciatori, che ci vanno per sparare agli uccelli appollaiati sui rami. Come spiegava una popolare rivista di caccia nell’agosto del 2008: “C’è un limite oltre il quale non si possono infrangere i forti vincoli e i valori morali delle famiglie maltesi, aspettandosi che si ritirino vigliaccamente e abbandonino la loro terra e la loro cultura, senza far ribollire il loro sangue latino”.

Eppure, a differenza di Cipro, l’opinione pubblica maltese è fortemente contraria alla caccia. Insieme alle banche, il turismo è la risorsa principale di Malta, e spesso i giornali pubblicano lettere arrabbiate di turisti che hanno subìto minacce da parte dei cacciatori o assistito ad atrocità contro gli uccelli. La classe media maltese, dal canto suo, non gradisce il fatto che i pochissimi spazi aperti del paese siano invasi da cacciatori dal grilletto facile che appendono cartelli di divieto d’accesso nei terreni pubblici. A differenza di BirdLife Cipro, BirdLife Malta è riuscita a ottenere il sostegno di cittadini importanti, compreso il proprietario del gruppo Radisson Hotel, per una campagna sui giornali intitolata “Riprenditi il tuo territorio”.

Malta, tuttavia, è uno stato con due partiti, e dato che le elezioni vengono generalmente decise da qualche migliaio di voti, né il Partito laburista né quello nazionalista possono permettersi di inimicarsi gli elettori appassionati di caccia rischiando di spingerli a disertare le urne. Perciò le leggi venatorie continuano a essere poco applicate: il personale che dovrebbe occuparsene è ridotto al minimo, molti poliziotti locali sono amici dei cacciatori e perfino i poliziotti buoni possono essere indolenti nel reagire alle denunce. Anche quando i trasgressori sono incriminati, i tribunali maltesi si dimostrano restii a infliggere multe per più di qualche centinaio di euro.

Nel 2010 il governo nazionalista ha aperto la caccia primaverile a quaglie e tortore ignorando una decisione della corte di giustizia europea dell’autunno precedente. La direttiva europea del 1979 consente agli stati dell’Unione di applicare “deroghe” e autorizza l’uccisione di piccole quantità di esemplari di specie protette per “sfruttamento giudizioso”, come il controllo degli stormi intorno agli aeroporti o la caccia di sussistenza da parte di comunità rurali tradizionali. Il governo maltese ha chiesto una deroga per continuare la “tradizione” della caccia primaverile e la corte ha deliberato che la richiesta di Malta non soddisfaceva tre dei quattro criteri imposti dalla direttiva: rigorosa applicazione, piccole quantità e parità con gli altri stati membri dell’Unione. Riguardo al quarto criterio, tuttavia – cioè se esista “un’alternativa” – Malta ha fornito la prova, basata sul numero di esemplari uccisi, che la caccia autunnale a quaglie e tortore non rappresenta un’alternativa soddisfacente alla caccia primaverile. Il governo sapeva che il conteggio degli esemplari uccisi non era attendibile (lo stesso segretario generale dell’Fknk ha ammesso pubblicamente che il vero numero potrebbe essere dieci volte superiore a quello dichiarato), ma la prassi della Commissione europea è di accettare i dati forniti dai governi degli stati membri. Malta sosteneva inoltre che, poiché non si tratta di specie minacciate a livello globale (sono ancora abbondanti in Asia), quaglie e tortore non meritassero una protezione assoluta, e gli avvocati della commissione mancarono di sottolineare che la cosa davvero rilevante è lo status della specie all’interno dell’Unione europea, dove in effetti le popolazioni di quegli uccelli sono in grave declino. Perciò, mentre si pronunciava contro Malta e proibiva la caccia primaverile, la corte riconosceva che uno dei quattro criteri era stato effettivamente soddisfatto. Il governo maltese ha proclamato la “vittoria” in patria, e all’inizio di aprile ha autorizzato la caccia.

Il primo giorno della stagione, all’alba, esco in perlustrazione insieme a Tolga Temuge, che sembra un David Foster Wallace turco. Non ci aspettiamo di vedere molti cacciatori, perché l’Fknk, irritata dalle condizioni imposte dal governo – la stagione durerà solo sei mezze giornate, invece delle tradizionali sei-otto settimane, e le licenze concesse sono state solo duemilacinquecento – ha organizzato un boicottaggio della stagione, minacciando di “coprire di vergogna” chiunque richieda la licenza. “La Commissione europea ha fallito”, mi dice Temuge mentre percorriamo il labirinto oscuro e polveroso della rete stradale maltese. “La federazione dei cacciatori europea e BirdLife international hanno lavorato sodo per arrivare a limiti di caccia sostenibili, e poi Malta, il più piccolo degli stati dell’Unione, minaccia di demolire l’intero edificio della direttiva uccelli. L’inosservanza da parte di Malta sta creando un brutto precedente per gli altri stati membri, soprattutto quelli del Mediterraneo, incoraggiandoli a comportarsi nello stesso modo”.

Quando il cielo si schiarisce, ci fermiamo in una stradina di calcare grezzo tra campi recintati di fieno dorato e ci mettiamo in ascolto di eventuali spari. Sento cani che abbaiano, un gallo che canta, qualche camion che cambia marcia e, da qualche parte lì vicino, un richiamo elettronico per quaglie. In questo momento ci sono altre sei squadre di Temuge in giro per l’isola, formate per la maggior parte da volontari stranieri accompagnati da agenti di sicurezza maltesi stipendiati. Mentre il sole sorge, cominciamo a sentire qualche sparo lontano, ma non molti: stamattina sembra che non voli un uccello in tutto il paese. Procediamo attraverso un villaggio in cui risuonano un paio di spari – “Cazzo, è incredibile!”, esclama Temuge. “Siamo in una zona abitata, cazzo!” – e poi rientriamo in quel labirinto di mura di pietra che a Malta viene definito campagna. Altri spari ci conducono fino a un piccolo campo, dove troviamo due uomini sulla trentina con una radio portatile. Appena ci vedono prendono in mano la zappa e cominciano a occuparsi della loro rigogliosa coltivazione di fagioli e cipolle. “Sanno subito quando entri nella loro zona”, dice Temuge. “Lo sanno tutti. Se hanno una radio, puoi stare sicuro al novanta per cento che sono cacciatori”. In effetti sembra un po’ presto per uscire a zappare, e finché restiamo nei pressi del campo non sentiamo più spari. Quattro splendenti rigogoli maschi ci sfrecciano accanto, sfortunati per aver scelto Malta come sosta migratoria, ma fortunati di averci trovati qui. Su un albero basso scorgo una femmina di fringuello, che pur essendo uno degli uccelli più comuni d’Europa è quasi del tutto introvabile a Malta, perché la cattura illegale dei fringillidi è molto diffusa. Quando glielo indico, Temuge si entusiasma. “Un fringuello!”, esclama. “Sarebbe incredibile se i fringuelli ricominciassero a riprodursi da queste parti”. È come se qualcuno in Nordamerica si meravigliasse di vedere un tordo migratore.

I cacciatori maltesi hanno lo svantaggio di volere una cosa che metterebbe Malta nei guai ed esporrebbe il paese a sanzioni da parte dell’Unione europea: chiedono il diritto legale di sparare agli uccelli diretti verso i luoghi di riproduzione. Perciò ai capi dell’Fknk non resta che adottare una linea intransigente, che suscita false speranze tra gli iscritti dell’associazione e li fa sentire frustrati e traditi quando, inevitabilmente, il governo li delude. Incontro il portavoce dell’Fknk, Joseph Perici Calascione, un uomo nervoso ma eloquente, nella sede angusta e disordinata dell’organizzazione. “Come possono aspettarsi, anche con tutta l’immaginazione del mondo, che ci riteniamo soddisfatti? La stagione primaverile ha lasciato l’ottanta per cento dei cacciatori senza licenza”, mi dice. “Già da due anni ci hanno privato di una stagione che faceva parte della nostra tradizione, del nostro modo di vivere. Non ci aspettavamo di tornare alla situazione di tre anni fa, ma speravamo comunque in una stagione adeguata, come quella che il governo ci aveva promesso senza mezzi termini prima dell’ingresso nell’Unione europea”.

Sollevo la questione della caccia illegale, e Perici Calascione mi offre uno scotch. Quando rifiuto, ne versa uno per sé. “Siamo del tutto contrari alla caccia illegale di specie protette”, dice. “Siamo disposti a impiegare guardacaccia per scovare questi individui e revocargli la tessera. E lo avremmo già fatto, se ci avessero concesso una buona stagione”. Perici Calascione ammette che le dichiarazioni più polemiche del segretario generale dell’Fknk lo mettono a disagio, ma lui stesso si mostra molto preoccupato quando cerca di comunicarmi quanto consideri importante la caccia. Mi ricorda, stranamente, un ambientalista in vena di vittimismo. “Siamo tutti frustrati”, dice, con un tremito nella voce. “I disturbi mentali sono aumentati, abbiamo avuto dei suicidi tra i nostri soci. La nostra cultura è minacciata”.

Quanto la caccia in stile maltese rappresenti una “cultura” e una “tradizione” è una questione opinabile. Mentre la caccia primaverile e l’uccisione e imbalsamazione di uccelli rari sono senza dubbio tradizioni di antica data, il fenomeno del massacro indiscriminato sembra cominciato solo a partire dagli anni sessanta, quando Malta ottenne l’indipendenza e cominciò a prosperare. Malta, in effetti, rappresenta una totale confutazione della teoria secondo cui la ricchezza di una società porterebbe a una migliore gestione dell’ambiente. La ricchezza ha portato a Malta armi più sofisticate, più denaro per pagare gli imbalsamatori, più macchine e strade migliori, che hanno reso la campagna più accessibile ai cacciatori. La caccia, che un tempo era una tradizione tramandata di padre in figlio, è diventata un passatempo per gruppi di ragazzi turbolenti.

In un appezzamento di terreno appartenente a un albergo che spera di costruirci un campo da golf, incontro un cacciatore all’antica che si dice disgustato dal comportamento dei suoi connazionali e dal fatto che l’Fknk è tollerante nei loro confronti. Mi spiega che la caccia indiscriminata è nel “sangue” maltese, e che era irragionevole aspettarsi che i cacciatori cambiassero di colpo dopo l’ingresso del paese nell’Unione europea (“Se una nasce prostituta”, mi dice, “non diventerà mai suora”). Ma poi aggiunge che la colpa è soprattutto dei cacciatori più giovani, e che l’abbassamento del limite di età per la licenza di caccia da ventuno a diciotto anni ha peggiorato la situazione. “E ora che hanno cambiato il regolamento sulla caccia primaverile”, aggiunge, “chi rispetta la legge non può uscire, ma quelli che cacciano in modo indiscriminato escono ancora, perché non ci sono controlli a sufficienza. Questa primavera ho passato tre settimane in campagna, e ho visto una sola macchina della polizia”.

A Malta la principale stagione di caccia è sempre stata la primavera, e il cacciatore afferma che se la stagione primaverile venisse chiusa definitivamente, lui con tutta probabilità continuerà a cacciare in autunno finché i suoi due cani rimarranno in vita, e poi smetterà e si dedicherà al birdwatching. “Sta succedendo qualcos’altro”, prosegue. “Voglio dire, dove sono le tortore?

Quando ero giovane e uscivo a caccia con mio padre, guardavamo in cielo e ne vedevamo a migliaia. Adesso siamo in alta stagione, e ieri sono rimasto fuori tutto il giorno e ne ho viste dodici. Sono due anni che non vedo un succiacapre. E cinque anni che non vedo un codirossone. Lo scorso autunno sono uscito tutte le mattine e tutti i pomeriggi con i miei cani in cerca di beccacce, ne ho viste tre e non ho sparato neanche un colpo. E questo è un altro aspetto del problema: la gente è frustrata. ‘Se non trovo beccacce, sparerò a un gheppio’, dicono”.

La domenica, verso sera, io e Temuge ci appostiamo in un punto alto e appartato per spiare con il telescopio due uomini che scrutano il cielo e i campi con il binocolo. “Sono senz’altro cacciatori”, dice Temuge. “Tengono nascosto il fucile finché non passa qualcosa a cui sparare”. Ma quando trascorre un’ora senza che passi niente, i due uomini prendono il rastrello e cominciano a sarchiare l’orto, alzando solo ogni tanto il binocolo, e dopo un’altra ora si mettono a lavorare ancora più sodo, perché gli uccelli non ci sono.

L’Italia è una lunga e stretta forca caudina per i migratori alati. Ogni anno i bracconieri del bresciano intrappolano un milione di uccelli canori da vendere ai ristoranti che offrono polenta e osei: polenta con gli uccelli. I boschi della Sardegna sono pieni di lacci metallici, le lagune venete fanno da sfondo al massacro delle anatre svernanti, e l’Umbria, la terra di san Francesco, è la regione con il più alto numero di cacciatori rispetto alla popolazione. In Toscana i cacciatori devono rispettare una certa quota di beccacce e colombacci e quattro uccelli canori legalmente cacciabili, tra cui l’allodola e il tordo bottaccio; ma all’alba, nella bruma, è difficile distinguere le prede consentite da quelle vietate, e comunque chi ci farebbe caso? Più a sud, in Campania, una regione controllata in gran parte dalla camorra, l’habitat più invitante per i migratori acquatici e i trampolieri è costituito dai campi inondati dalla camorra e affittati ai cacciatori per cifre che raggiungono i mille euro al giorno: i commercianti all’ingrosso arrivano da Brescia con camion frigoriferi per raccogliere gli uccelli catturati dai piccoli bracconieri. Il territorio di intere province campane è ricoperto di trappole per sette diverse specie di melodiosi fringillidi europei, e i camorristi pagano profumatamente per gli uccelli canori addestrati che vengono venduti nei mercati illegali. Più a sud, in Calabria e in Sicilia, la caccia al falco pecchiaiolo durante la migrazione primaverile è stata ridotta grazie a numerose azioni di polizia e alla sorveglianza dei volontari, ma la Calabria è ancora piena di bracconieri che, se sanno di poterla passare liscia, sparano a tutto ciò che vola.

Una vecchia, singolare legge del codice civile italiano, promulgata dai fascisti per favorire la dimestichezza con le armi da fuoco, concede ai cacciatori, e solo a loro, il diritto di entrare in una proprietà privata, a chiunque appartenga, per inseguire la selvaggina. Negli anni ottanta più di due milioni di cacciatori con licenza imperversavano nelle campagne italiane, svuotate dallo spostamento degli abitanti verso le città. In Italia, tuttavia, gran parte della popolazione urbana è contraria alla caccia, e nel 1992 il parlamento italiano ha approvato una delle leggi venatorie più restrittive d’Europa, che dichiarava, in maniera del tutto radicale, che la fauna selvatica appartiene esclusivamente allo stato italiano, riducendo così la caccia a una concessione straordinaria. Nei vent’anni successivi la popolazione di alcuni dei grossi animali più simpatici d’Italia, tra cui i lupi, è aumentata in maniera spettacolare, mentre il numero delle licenze di caccia è sceso sotto le ottocentomila. Queste due tendenze hanno spinto Franco Orsi, un senatore ligure del partito di Silvio Berlusconi, a presentare un disegno di legge per liberalizzare l’uso dei richiami vivi ed estendere i tempi e i luoghi in cui è consentita la caccia. Il parlamento ha approvato un’altra legge “comunitaria”, per adeguare l’Italia alla direttiva europea e quindi evitare le multe pendenti per centinaia di milioni di euro. Ma ha fatto una grande concessione ai cacciatori: la stagione della caccia ad alcune specie è stata prolungata fino a febbraio. Incontro Orsi nella sede di Genova del suo partito, alla vigilia delle elezioni regionali del 2010 che segneranno una nuova vittoria della coalizione di Berlusconi. Orsi, un bell’uomo sulla quarantina dallo sguardo dolce, è un appassionato cacciatore che sceglie dove andare in vacanza in base alle prede cacciabili. Sostiene di voler aggiornare la legge del 1992 perché ha causato una vertiginosa espansione delle specie dannose; perché i cacciatori italiani dovrebbero poter fare quello che fanno i francesi e gli spagnoli; perché i proprietari privati possono gestire i terreni per l’allevamento della selvaggina meglio dello stato e perché la caccia è un’attività che porta benefici dal punto di vista sociale e spirituale. Mi mostra un giornale con la foto di un cinghiale che corre per le strade di Genova. Mi spiega che gli storni rappresentano una minaccia per aeroporti e vigneti. Ma quando mi dichiaro d’accordo sulla necessità di controllare cinghiali e storni, Orsi aggiunge che i cacciatori non amano sparare ai cinghiali nella stagione imposta dalle autorità. “E comunque, non posso accettare che si possa sparare solo a cinghiali, nutrie e storni”, dice. “Questo può farlo l’esercito”.

Gli chiedo se è favorevole a cacciare ogni specie dell’avifauna fino al massimo compatibile con il mantenimento della popolazione esistente. “Immaginiamo la fauna come un capitale che si rivaluta ogni anno”, mi risponde. “Se spendo l’interesse, posso sempre tenermi il capitale, e il futuro della specie e della caccia sarà salvaguardato”.
“Ma c’è anche un’altra strategia di investimento, quella di reinvestire parte degli interessi per far crescere il capitale”, ribatto.
“Questo varia da specie a specie. Per ciascuna specie esiste una densità ottimale, e alcune hanno una densità più alta dell’ottimale, altre più bassa. Perciò la caccia deve regolare l’equilibrio”.

Durante i miei precedenti viaggi in Italia mi era sembrato che quasi tutte le specie dell’avifauna avessero una densità inferiore a quella ottimale. Visto che Orsi non è d’accordo con me, gli chiedo in che modo secondo lui sparare a uccelli inoffensivi può giovare alla società. Con mia grande sorpresa mi risponde citando Peter Singer, l’autore di Liberazione animale, per dimostrare che, se ogni uomo dovesse mangiare solo gli animali che riesce a uccidere, saremmo tutti vegetariani. “Nella nostra società urbana abbiamo perso quella relazione uomo-animale che conteneva un elemento di violenza”, dice. “Quando avevo quattordici anni mio nonno, secondo la tradizione di famiglia, mi fece uccidere un pollo, e oggi ogni volta che mangio il pollo mi ricordo che è un animale. Per tornare a Peter Singer, il consumo eccessivo di animali nella nostra società corrisponde al consumo eccessivo di risorse. Enormi quantità di spazio sono dedicate agli allevamenti industriali, perché abbiamo perso il senso dell’identità rurale. Non dovremmo pensare che la caccia sia l’unica forma di violenza umana contro l’ambiente. E la caccia, in questo senso, è istruttiva”.

Pensavo che Orsi non avesse tutti i torti, ma secondo gli ambientalisti italiani con cui ho parlato dopo la sua retorica dimostra solo che è bravo a manipolare i giornalisti. Dietro la spinta a liberalizzare le leggi sulla caccia, tutti gli ambientalisti vedono la mano della potente industria italiana di armi e munizioni. Come mi dice uno di loro: “Quando qualcuno ti chiede cosa produce la tua impresa, tu cosa rispondi: ‘Mine antiuomo che uccidono bambini bosniaci’, oppure ‘Fucili tradizionali per gente che ama aspettare all’alba l’arrivo delle anatre nella palude’?”.

È impossibile sapere quanti uccelli vengono uccisi in Italia. Il numero di tordi bottacci denunciati in un anno, per esempio, va dai tre ai sette milioni, ma Fernando Spina, dirigente di ricerca dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, considera queste stime “altamente prudenziali”, visto che solo i cacciatori più coscienziosi compilano correttamente il tesserino, le guardie venatorie non hanno personale sufficiente per sorvegliare i cacciatori, i database provinciali non sono quasi mai computerizzati e la maggior parte delle autorità venatorie locali ignora regolarmente le richieste di dati. Quel che è noto è che l’Italia è una rotta migratoria di cruciale importanza. Qui si segnalano ritrovamenti di uccelli inanellati provenienti da ogni paese d’Europa, da trentotto paesi africani e sei asiatici. E in Italia la migrazione di ritorno comincia molto presto, in alcuni casi addirittura alla fine di dicembre. La direttiva uccelli dell’Unione europea protegge tutti gli uccelli in migrazione di ritorno, consentendo la caccia solo entro i limiti della naturale mortalità autunnale, e perciò la maggior parte dei cacciatori responsabili ritiene che la stagione dovrebbe terminare il 31 dicembre. La nuova legge comunitaria italiana, tuttavia, va nel senso opposto, ed estende la stagione fino a febbraio. Poiché i migratori che rientrano per primi sono in genere i più forti della specie, la nuova legge trasforma in bersagli proprio gli uccelli che hanno le migliori possibilità di riprodursi. Una stagione più lunga, inoltre, protegge i bracconieri delle specie protette, perché uno sparo illegale e uno legale producono lo stesso rumore. E senza dati precisi è impossibile sapere se il limite annuale regionale per ciascuna specie rientri nella mortalità naturale. “Il limite annuale è una cifra arbitraria, decisa dai funzionari locali”, dice Spina. “Non ha niente a che vedere con il numero effettivo di uccelli censiti”.

Anche se la perdita di habitat è il motivo principale della drastica diminuzione degli uccelli d’Europa, la caccia all’italiana (caccia selvaggia, come la chiamano i suoi detrattori) aggiunge al danno anche la beffa. Fulco Pratesi è un ex cacciatore di animali di grossa taglia che ha fondato il Wwf Italia e ora considera la caccia una “mania”. Quando gli chiedo perché i cacciatori italiani sono così entusiasti di sparare agli uccelli, lui cita l’amore dei suoi connazionali per le armi, il loro radicato “atteggiamento virile”, il loro piacere nell’infrangere la legge e, stranamente, il loro amore per la natura. “Un po’ come uno stupratore che ama le donne ma esprime il suo amore in modo violento e perverso”, dice Pratesi. “Si cacciano uccelli che pesano ventidue grammi con cartucce da trentadue grammi”. Gli italiani, aggiunge, si affezionano più facilmente ad animali “simbolici” come il lupo e l’orso, e in effetti sono riusciti a proteggerli meglio di quanto abbia fatto il resto d’Europa. “Ma gli uccelli sono invisibili”, continua. “Non li vediamo, non li sentiamo. Nell’Europa del nord, l’arrivo degli uccelli migratori è un fatto visibile e udibile che commuove le persone. Qui la gente vive nelle città e in caseggiati enormi, e gli uccelli sono letteralmente tra le nuvole”.

Per buona parte della sua storia, l’Italia è stata visitata in primavera e in autunno da enormi quantità di pacchetti volanti di proteine, e a differenza dell’Europa del nord, dove le persone hanno imparato a vedere la correlazione tra lo sfruttamento eccessivo e il calo delle risorse, nel Mediterraneo le riserve sembravano illimitate. Un bracconiere di Reggio Calabria, ancora risentito per il divieto di sparare al falco pecchiaiolo, mi spiega: “A Reggio ne uccidevamo solo duemilacinquecento ogni primavera, su un passaggio totale di sessanta-centomila: non erano mica tanti”. L’unico modo in cui riesce a capire la messa al bando del suo sport è in termini di denaro. Mi dice, in tutta serietà, che certe organizzazioni antibracconaggio sono nate solo per spillare soldi allo stato, e che le leggi antibracconaggio sono state fatte proprio perché servivano bracconieri contro cui combattere. “E ora questa gente si arricchisce a spese dello stato”, conclude.

In una provincia dell’Italia meridionale ho conosciuto un ex bracconiere fanciullesco e sbarazzino di nome Sergio. Dopo essere entrato nella mezza età, sentendo di aver ormai superato una certa fase della vita, Sergio ha smesso di andare a caccia di frodo, e adesso racconta storielle comiche sui suoi “peccati di gioventù”. La caccia notturna, da sempre illegale, non è mai stata un problema, mi dice Sergio, se i tuoi compagni di battuta erano il prete della parrocchia e il brigadiere dei carabinieri. Il brigadiere risultava particolarmente utile per dissuadere le guardie forestali dal perlustrare i dintorni. Una sera in cui erano usciti a caccia insieme, Sergio e il brigadiere s’imbatterono in un gufo, irrigidito su una staccionata davanti ai fari della jeep. Il brigadiere disse a Sergio di sparare al gufo. Quando Sergio esitò, il brigadiere prese un badile, girò intorno al gufo e lo colpì sulla testa. Poi lo caricò nel retro della jeep.
“Perché?”, chiedo a Sergio. “Perché voleva uccidere il gufo?”.
“Perché stavamo cacciando!”.

Alla fine della nottata, quando il brigadiere aprì il portellone della jeep, il gufo, che era solo stordito, gli volò addosso: Sergio spalanca le braccia e fa una smorfia ridicolmente feroce per descrivermi la scena. Sergio è sempre andato a caccia per mangiare. Mi insegna un proverbio nel suo dialetto: “Mangia carne di pinna, e sia curnocchia; ama core gentile, e sia ’na vecchia” (mangia carne di pennuto anche se è di cornacchia; ama una donna dal cuore gentile anche se è anziana). “La cornacchia puoi cuocerla per sei giorni, e rimane sempre dura”, mi dice. “Ma in brodo non è male. Ho mangiato anche il tasso e la volpe: ho mangiato di tutto!”. L’unico uccello che gli italiani non sembrano interessati a mangiare è il gabbiano. Perfino il falco pecchiaiolo, anche se per tradizione le famiglie meridionali ne tenevano un esemplare impagliato nella stanza più importante della casa (da queste parti il falco pecchiaiolo è soprannominato adorno, dal verbo “adornare”), veniva consumato come manicaretto primaverile. Il bracconiere di Reggio mi ha dato la sua ricetta per cuocerlo in fricassea con zucchero e aceto.

I “cacciatori selvaggi” italiani che, a differenza di Sergio, non hanno abbandonato il vecchio passatempo, e sono frustrati perché la selvaggina diminuisce e le restrizioni aumentano, hanno imparato a spostarsi nel Mediterraneo in cerca di emozioni. Lungo la costa della Campania parlo con un bracconiere allegramente incallito, un incorreggibile giovane-vecchio mezzo sdentato il quale, ora che non può più allestire un capanno sulla spiaggia e sparare a un numero illimitato di migratori in arrivo, si accontenta di passare le vacanze in Albania, dove può ancora sparare a tutto quello che trova, in qualunque momento, per una tariffa molto bassa. Le trasferte all’estero sono popolari tra i cacciatori di tutte le nazioni, ma gli italiani sono generalmente considerati i peggiori. I più ricchi vanno in Siberia a sparare alla beccaccia durante il volo nuziale primaverile, o in Egitto, dove mi hanno detto che i cacciatori possono ingaggiare un poliziotto per andare a recuperare le prede mentre loro sparano a ibis e a specie di anatre minacciate finché non gli si stancano le braccia; su internet si trovano foto di turisti cacciatori in posa accanto a enormi mucchi di carcasse di uccelli.

I cacciatori responsabili italiani detestano i cacciatori selvaggi. Detestano Franco Orsi. “In Italia c’è uno scontro culturale tra due visioni della caccia”, mi spiega Massimo Canale, un giovane cacciatore di Reggio Calabria. “Da una parte ci sono quelli come Orsi, che dicono: ‘Apriamola del tutto’. Dall’altra ci sono le persone che si sentono responsabili del posto in cui vivono. Per diventare un cacciatore selettivo non basta la licenza. Occorre studiare biologia, fisica, balistica. Il cacciatore selettivo uccide cinghiali e cervi: ha un ruolo da svolgere”. Canale ha scoperto il suo istinto predatorio da bambino, quando andava a caccia in modo indiscriminato insieme al nonno, e si considera fortunato di aver conosciuto persone che gli hanno insegnato un modo migliore di cacciare. “Non m’importa se non uccido qualcosa tutti i giorni”, mi dice. “Ma l’obiettivo è uccidere, mentirei se lo negassi. C’è un conflitto tra il mio istinto predatorio e la mia razionalità, e la caccia selettiva è il modo che ho scelto per cercare di domare l’istinto. Ritengo che ormai questo sia l’unico tipo di caccia possibile. E Orsi non lo sa, oppure non gl’interessa”. Le due visioni della caccia corrispondono in linea di massima alle due facce dell’Italia. C’è l’Italia criminale della camorra e della mafia e l’Italia semicriminale degli amici di Berlusconi, ma esiste anche, ancora oggi, l’Italia che lavora. Gli italiani che combattono il bracconaggio sono motivati dal disgusto per l’illegalità diffusa nel paese, e fanno affidamento sulle informazioni fornite dai cacciatori responsabili, che si sentono frustrati quando, per esempio, non riescono a uccidere nemmeno una quaglia perché sono state tutte attirate dai richiami illegali. A Salerno, la meno disorganizzata delle province campane, esco con una squadra di guardie del Wwf che mi porta a vedere un laghetto artificiale, ora prosciugato, dove di recente hanno pizzicato il presidente di un’associazione venatoria provinciale mentre usava richiami elettronici illegali per attirare gli uccelli. Vicino al laghetto, in una campagna desolata coperta di teloni di plastica bianchi, incombe un cumulo mezzo disintegrato di “ecoballe”, le balle cellofanate di spazzatura napoletana che sono state scaricate in tutto il territorio campano e sono diventate un simbolo della crisi ambientale italiana. “Era la seconda volta in due anni che lo prendevamo”, mi dice il caposquadra. “Era un membro del comitato che regola la caccia nella provincia, ed è rimasto il presidente anche dopo essere stato incriminato. Ci sono altri presidenti provinciali che fanno la stessa cosa, ma sono più difficili da prendere”.

Un esempio luminoso dell’Italia che lavora è la repressione della caccia di frodo al falco pecchiaiolo sullo stretto di Messina. Tutti gli anni, a partire dal 1985, la guardia forestale nazionale ha assegnato una squadra supplementare con elicotteri per pattugliare il versante calabrese dello stretto. Anche se ultimamente la situazione in Calabria è un po’ peggiorata – quest’anno la squadra era più piccola che in passato e si è fermata per meno giorni, e si stima che siano stati abbattuti quattrocento esemplari, il doppio che negli anni scorsi – il versante siciliano dello stretto, sotto il controllo di Anna Giordano, rimane fondamentalmente libero da bracconieri.

Dal 1981, quando aveva quindici anni, Giordano tiene d’occhio i bunker di cemento da cui i rapaci venivano abbattuti a migliaia mentre sorvolavano a bassa quota le montagne sopra Messina. A differenza dei calabresi, che il falco pecchiaiolo lo mangiavano, i siciliani lo uccidevano esclusivamente per rispettare la tradizione, per fare a gara tra loro e per portare a casa un trofeo. Alcuni sparavano a qualunque cosa volasse, altri si limitavano al falco pecchiaiolo (che veniva chiamato “l’Uccello”), a meno che non avvistassero un’autentica rarità come l’aquila reale. Giordano correva dai bunker al telefono pubblico più vicino, da dove chiamava la guardia forestale, e poi di nuovo ai bunker. Le hanno danneggiato più volte la macchina, l’hanno minacciata e insultata, ma nessuno le ha mai fatto del male, probabilmente perché era una giovane donna (la parola italiana per “uccello”, un comune sinonimo di “pene”, ha spesso generato battute volgari su di lei, ma un poster che ho visto sulla parete del suo ufficio capovolgeva la battuta: “La tua virilità? Un uccello morto”). Con successo sempre maggiore, soprattutto dopo l’arrivo dei telefoni cellulari, Giordano ha costretto la guardia forestale a usare la mano pesante con i bracconieri, e la sua fama crescente ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione e le ha portato legioni di volontari. Negli ultimi anni, le sue squadre hanno denunciato meno di una decina di spari per stagione.

“I primi anni”, mi dice Giordano mentre la seguo in cima a una collina per osservare il passaggio dei falchi, “non osavamo neanche alzare il binocolo quando contavamo i rapaci, perché i bracconieri ci tenevano d’occhio e se ci vedevano guardare in alto cominciavano a sparare. Sulle schede di osservazione di quel periodo si trovano un sacco di ‘rapaci non identificati’. E oggi possiamo stare qui tutto il pomeriggio a confrontare le barre alari delle albanelle femmine di un anno senza sentire nemmeno uno sparo. Un paio d’anni fa, uno dei bracconieri peggiori, un uomo violento, stupido e volgare che ci importunava dovunque andassimo, mi si accostò con la macchina e mi chiese se potevamo parlare. ‘Eh-eh-eh, certo’, feci io. Mi chiese se mi ricordavo cosa gli avevo detto venticinque anni prima. Io risposi che non mi ricordavo neanche cosa avevo detto il giorno prima. E lui: ‘Mi hai detto che sarebbe venuto il giorno in cui avrei amato gli uccelli anziché ammazzarli. Sono venuto a dirti che avevi ragione. Adesso, quando esco con mio figlio, non gli dico più: ‘Hai preso il fucile?’, ma: ‘Hai preso il binocolo?’. Allora gli ho dato il mio binocolo – a un bracconiere! – perché potesse osservare il falco pecchiaiolo che volava sopra di noi”.

Giordano è una donna piccola, scura e zelante. Negli ultimi tempi ha attaccato l’amministrazione locale per gli abusi edilizi intorno a Messina e, come se non avesse già abbastanza da fare, collabora alla gestione di un centro di recupero della fauna selvatica. Ho già visitato un ospedale veterinario italiano, negli edifici di un ex ospedale psichiatrico di Napoli, e ho visto le lastre di un falco punteggiate dai pallini di piombo, diversi rapaci convalescenti all’interno di grandi gabbie, e un gabbiano con la zampa sinistra annerita e raggrinzita dal contatto con una sostanza acida. Al centro di recupero, su una collina dietro Messina, guardo Anna Giordano imboccare con pezzi di tacchino crudo una piccola aquila accecata da una raffica di pallini. Con una mano afferra gli artigli dell’aquila e la stringe a sé. Le penne della coda sporche e flosce, lo sguardo arcigno ma impotente, l’animale lascia che Giordano le apra il becco e le riempia il gozzo di carne. L’uccello mi sembra una vera aquila e allo stesso tempo qualcosa che non è più un’aquila: qualcosa che non riconosco.

Come la maggior parte dei ristoranti ciprioti che servono ambelopoulia, quello dove vado insieme a un mio amico e a un suo amico (li chiamerò Takis e Demetrios) ha una saletta privata in cui si possono consumare gli uccellini con discrezione. Attraversiamo la sala principale, dove la tv trasmette a tutto volume una delle telenovele brasiliane che vanno per la maggiore a Cipro, e ci sediamo davanti a una raffica di specialità cipriote: maiale affumicato, formaggio fritto, fiori di cappero sott’aceto, uova con asparagi selvatici e funghi, salsiccia al vino, couscous. Il proprietario ci porta anche tre tordi bottacci fritti che non abbiamo chiesto, e indugia accanto al nostro tavolo come per assicurarsi che mangi la mia porzione. Penso a san Francesco, che una volta all’anno, a Natale, metteva da parte il suo amore per gli animali e mangiava carne. Penso a un ragazzo di nome Woody, che durante una gita in campeggio della mia adolescenza mi offrì un assaggio di tordo americano fritto. Penso a un importante ambientalista italiano che, parlando con me, ha ammesso che i tordi bottacci sono “terribilmente buoni”. L’ambientalista aveva ragione. La carne è scura e succulenta, e le dimensioni del volatile, più grande di un ambelopoulia, mi permettono di considerarlo una normale pietanza da ristorante, più o meno, e di considerare me stesso un normale cliente.

Quando il proprietario se ne va, chiedo a Takis e Demetrios chi sono i ciprioti che amano mangiare l’ambelopoulia.
“Quelli che lo mangiano spesso”, risponde Demetrios, “sono gli stessi che frequentano i cabaret, i night club con ballerine di pole dance e ragazze dell’est disponibili. In altre parole, gente con un livello di moralità non molto elevato. Cioè la maggior parte dei ciprioti. Qui c’è un detto: ‘Tutto quel che puoi cacciarti in bocca, tutto quello che puoi prendere con il culo…’”.
“Perché la vita è breve”, interviene Takis.
“La gente arriva a Cipro e crede di essere in un pae­se europeo, perché facciamo parte dell’Unione europea”, prosegue Demetrios. “In realtà siamo un paese mediorientale che solo per caso si trova in Europa”.
La sera prima, al commissariato di polizia di Paralimni, ho rilasciato una dichiarazione a un giovane investigatore che sembrava volesse sentirmi dire che chi aveva aggredito la squadra del Cabs aveva solo intenzione di farci smettere di scattare foto e girare video.
“Per le persone di qui”, mi ha spiegato alla fine, “intrappolare uccelli è una tradizione che non si può cambiare da un giorno all’altro. Cercare di parlare con loro e spiegare perché sbagliano è un approccio più utile di quello aggressivo del Cabs”.
Forse aveva ragione, ma io ho già sentito questo appello alla pazienza in diverse parti del Mediterraneo, e mi sembra un’altra versione del più generale appello del consumismo moderno: aspettate finché non avremo esaurito tutte le risorse naturali, e poi voi amanti della natura potrete tenervi quel che rimane.
Mentre io, Takis e Demetrios aspettiamo la dozzina di ambelopoulia che stanno per arrivare, discutiamo su chi li mangerà.

“Magari ne assaggerò un pezzettino”, azzardo.
“A me non piace l’ambelopoulia”, dice Takis.
“Neanche a me”, dice Demetrios.
“Okay”, dico io. “Ve bene se io ne prendo due e voi ne prendete cinque per uno?”.
Scuotono la testa.
Poco dopo, con sconcertante rapidità, il proprietario ritorna con un piatto. Nella luce violenta della saletta, le ambelopoulia sembrano una dozzina di luccicanti stronzi grigio-giallognoli. “Lei è il primo americano a cui li servo”, mi dice il proprietario. “Ho avuto parecchi russi, ma un americano mai”. Ne metto una sul piatto, e il proprietario mi assicura che mangiandola otterrò un effetto equivalente a due pillole di Viagra.

Quando restiamo di nuovo soli, il mio campo visivo si riduce a pochi centimetri, come quando sezionai una rana durante la lezione di biologia di prima superiore. Mi costringo a mangiare i muscoli del petto grossi come due mandorle, che costituiscono la sola carne di tutto il piatto; il resto è cartilagine unta, interiora e minuscoli ossicini. Non riesco a capire se il sapore amaro della carne sia reale oppure un prodotto dell’emozione, l’incantesimo della capinera uccisa.
Takis e Demetrios stanno spazzando via in fretta i loro otto uccelli, succhiando le ossa e dicendo che l’ambelopoulia è un piatto molto migliore di quanto ricordassero, anzi, è proprio buona. Io smembro un altro uccellino e poi, sentendomi un po’ male, avvolgo i due che restano in un tovagliolo di carta e me li infilo in tasca. Il proprietario torna e mi domanda se mi sono piaciuti.
“Mmm!”, rispondo.
“Se non mi avesse chiesto questo piatto”, aggiunge in tono pieno di rammarico, “credo che si sarebbe davvero gustato l’agnello, questa sera”.
Io non rispondo, ma ora, come se fosse soddisfatto dalla mia complicità, l’uomo diventa loquace: “Oggi i ragazzini non mangiano volentieri l’ambelopoulia. Una volta si cominciava da giovani, e ci si abituava al sapore. Il mio bambino può mangiarne dieci per volta”.
Takis e Demetrios si scambiano un’occhiata scettica.
“È un peccato che abbiano proibito questo piatto”, continua il proprietario, “perché era una grande attrazione turistica. Oggi è quasi come il traffico di droga. Una dozzina di uccelli mi costa sessanta euro. Quei maledetti stranieri vengono qui, tirano giù le reti e le distruggono, e noi ci siamo arresi. Un tempo catturare l’ambelopoulia era un modo per guadagnare un po’ di soldi, da queste parti”.
Fuori, ai margini del parcheggio del ristorante, vicino ad alcuni cespugli dove poco fa ho sentito cantare l’ambelopoulia, mi inginocchio e scavo un buco nel terreno con le dita. Il mondo mi sembra particolarmente privo di significato, e la cosa migliore che posso fare per combattere questa sensazione è estrarre i due uccelli morti dal tovagliolo, deporli nel buco e ricoprirli con un po’ di terra. Poi Takis mi accompagna in una taverna vicina, dove alcuni uccelli di medie dimensioni stanno cuocendo sulla griglia all’aperto. È una specie di cabaret dei poveri, e quando ordiniamo le birre al bar, una delle entraineuse, una moldava bionda dalle gambe grosse, avvicina lo sgabello al nostro tavolo.

L’azzurro del Mediterraneo non mi attira più. La trasparenza delle sue acque, tanto apprezzata dai vacanzieri, è la trasparenza di una piscina sterile. Sulle sue spiagge ci sono pochi odori e pochi uccelli, e i suoi fondali saranno presto vuoti. La maggior parte del pesce consumato in Europa viene pescato illegalmente, senza che nessuno faccia domande, nell’oceano a ovest dell’Africa. Guardo l’azzurro e invece di un mare vedo una cartolina, sottile e fragile.

Eppure è stato il Mediterraneo, e in particolare l’Italia, a darci il poeta Ovidio, che nelle Metamorfosi disapprovava il consumo di carne animale, e Leonardo da Vinci, che era vegetariano e immaginava un giorno in cui la vita di un animale sarebbe stata considerata sullo stesso piano di quella di una persona, e san Francesco, che supplicò l’imperatore del Sacro romano impero di spargere il grano sui campi il giorno di Natale per offrire un banchetto alle allodole. Secondo san Francesco l’allodola cappellaccia, che con il piumaggio marrone smorto e la testina crestata ricordava il saio con cappuccio dei suoi frati minori, dei suoi piccoli fratelli, rappresentava un modello per l’ordine da lui fondato: vagava leggera come l’aria, senza mettere da parte nulla, limitandosi a racimolare il cibo necessario per la giornata, senza mai smettere di cantare. Si rivolgeva a lei chiamandola sorella allodola. Una volta, sul ciglio di una strada in Umbria, san Francesco predicò agli uccelli, che secondo la leggenda gli si radunarono intorno in silenzio, lo ascoltarono con l’aria di capire tutto, e poi lo rimproverarono perché quella era la prima volta che si rivolgeva a loro. Un’altra volta, invece, san Francesco voleva predicare agli esseri umani, ma uno stormo di rondini glielo impediva con i suoi garriti, e allora il santo disse, arrabbiato o gentile (le fonti non sono chiare): “Sorelle rondini, avete detto la vostra. Ora tacete e lasciate parlare me”. Secondo la leggenda, le rondini tacquero immediatamente.

Visito il luogo del sermone in compagnia di un frate francescano, Guglielmo Spirito, che è anche un appassionato studioso di Tolkien. “Fin da bambino”, mi racconta Guglielmo, “sapevo che sarei diventato un francescano. La cosa che mi attirava più di tutte, da giovane, era il rapporto di san Francesco con gli animali. Per me la sua lezione è la stessa di quella delle fiabe: l’unione con la natura non è solo desiderabile, ma anche possibile. Il santo è un esempio di integrità riconquistata, di un’integrità che è davvero alla nostra portata”. Non c’è alcuna traccia di integrità nell’edicola che commemora la predica agli uccelli, e che sorge sul ciglio di una strada trafficata di fronte a un distributore Vulcangas. A parte il gracchiare di un paio di cornacchie e il cinguettio delle cince, il rumore principale è il rombo delle auto, dei camion e dei trattori di passaggio. Tornati ad Assisi, però, Guglielmo mi porta a visitare due luoghi francescani decisamente incantevoli. Uno era il Sacro tugurio, l’edificio di pietra grezza dove san Francesco e i suoi primi seguaci vissero in volontaria povertà e crearono una confraternita. L’altra era la minuscola cappella di Santa Maria degli angeli, sulla quale, la notte in cui san Francesco morì, la leggenda narra che le sue sorelle allodole volassero cantando. Entrambe le strutture sono ora completamente racchiuse in chiese di epoca successiva, più grandi e decorate. Un architetto, un italiano pragmatico, ha ritenuto opportuno piantare una grossa colonna di marmo in mezzo al Sacro tugurio.

Nessuno dopo Gesù ha vissuto un’esistenza così fedele all’insegnamento del Vangelo come quella di san Francesco; e san Francesco, libero dal fardello di essere il Messia, fece anche meglio di Gesù, ed estese il Vangelo a tutta la creazione. Ho l’impressione che se gli uccelli selvatici sopravvivranno nell’Europa moderna, lo faranno alla maniera di quei piccoli antichi edifici francescani, nascosti dalle strutture di una Chiesa vanagloriosa e potente: come amate eccezioni alla regola.

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Traduzione di Silvia Pareschi.

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Jonathan Franzen è uno scrittore statunitense che vive a New York. Il suo terzo romanzo, Le correzioni (Einaudi 2002), ha vinto il National Book Award nel 2002. Il suo nuovo romanzo, Libertà, sarà pubblicato in Italia da Einaudi il 15 marzo 2011. Questo articolo è uscito sul New Yorker con il titolo Emptying the skies.

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Internazionale, numero 886, 25 febbraio 2011